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"OVUNQUE TU SIA DA QUALUNQUE LUOGO TU VENGA QUI VIVE L'UOMO E COME TALE SARAI ACCOLTO". Realtà nella quale vengono accolti minori e diversamente abili,da zero a diciotto anni per un massimo di 6 utenti. La Casa Famiglia " il Melograno" vuole essere un punto di riferimento per le situazioni che non trovano risposta . Essa fa parte dell' Associazione " Le Case" con sede a Pomino ( TEL. 055-8318918), la quale ha avviato nella zona quattro case famiglia tutte gestite da coppie con figli,una per ragazze madri,due per bambini e una per minori e diversamente abili . Per contatti: Tel\Fax 055-8326040 e-mail: cf.ilmelograno@gmail.com

domenica 30 maggio 2010

Una tutela giudiziaria per i disabili stranieri

di Mario Pavone

***

1. Premessa
2. Il quadro normativo
3. La tutela dei disabili stranieri
4. La tutela giurisdizionale
5. Conclusioni


1. Premessa

L’Italia sta diventando un Paese multietnico. Le ondate migratorie degli ultimi anni hanno condotto nel nostro paese milioni di persone dalle caratteristiche fisiche e dalle origini etniche molto diverse dalle nostre.

Nei confronti dei cittadini stranieri, i cui figli frequentano le nostre scuole e sono a tutti gli effetti nostri concittadini, il nostro Paese intende assicurare la necessaria tutela da ogni forma di discriminazione.

Va sottolineato come la discriminazione sia sempre dolorosa e come, in alcuni casi, possa divenire anche violenta.

Essa può assumere mille volti e nella maggior parte dei casi è impossibile individuarne una forma ben connotata.

Talvolta anche il semplice disprezzo e la discriminazione quotidiani e sottili offendono e arrecano danno alle vittime.

La discriminazione, inoltre, può manifestarsi nella vita quotidiana e nei rapporti di dipendenza: durante la ricerca di un impiego, sul posto di lavoro, alla ricerca di un alloggio, nel vicinato, a scuola, nei con tatti con le autorità e all’interno della famiglia.

La discriminazione razziale è, per fortuna, raramente diffusa in Italia ed ancora più raramente essa è dettata da un’ideologia razzista e, nella maggior parte dei casi, essa si manifesta con paure diffuse, pregiudizi e atteggiamenti aggressivi.

Non mancano, tuttavia, episodi isolati che meritano di essere segnalati all’attenzione degli operatori del diritto per evitare in avvenire il ripetersi di accadimenti che minano alla radice i principi di civile convivenza e di rispetto della dignità umana che sono fondamentali per ogni società multietnica.

In tale direzione assume un importante rilievo la sentenza n. 46783/2005, con la quale la Suprema Corte ha condannato alla pena di quattro mesi di reclusione un barista che si era più volte rifiutato di servire le consumazioni richieste da cittadini nord africani.

L’esercente del bar rifiutava sistematicamente di servire i cittadini extracomunitari, finché un giorno due di questi hanno richiesto e ottenuto l’intervento della polizia.

Così il barista, che aveva rifiutato di servire due caffè e aveva invitato i due a uscire dal locale, si è ritrovato in tribunale accusato di aver commesso atti di discriminazione razziale.

Il Tribunale lo ha ritenuto colpevole e condannato a quattro mesi di reclusione.

La sentenza è stata successivamente confermata in appello e dalla stessa Suprema Corte che ha ribadito che il comportamento dell’esercente non può trovare alcuna «ragione giustificatrice»«offendere la dignità dei cittadini extracomunitari a causa della loro diversa razza ed etnia». se non quella di

La Suprema Corte ha anche fatto riferimento, in sentenza, alla Convenzione Onu di New York del 1966 volta alla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale per assicurare la stessa dignità sociale ai cittadini di ogni stato e per reprimere penalmente i comportamenti che costituiscono espressione di discriminazione razziale.

L’Italia, ha osservato la Corte, oltre ad aver firmato questa Convenzione, ha anche varato proprie norme che mirano a far cessare «in tempi rapidi, con l’azione civile, comportamenti di privati o della pubblica amministrazione che producono discriminazione».

Tali norme prevedono anche il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali per chi abbia subito atti discriminatori[1].

Ogni vittima di episodi di discriminazione ha diritto di avere una tutela specifica per il proprio caso ed a maggior ragione se si tratta di un soggetto disabile che già affronta con difficoltà la propria esistenza quotidiana.

Di recente, la Corte Costituzionale, con sentenza 02.12.2005 n° 432, ha dichiarato la illegittimità dello art. 8, secondo comma, della legge della Regione Lombardia n. 1/2002, come modificato dall’art. 5, co. 7, della legge della Regione Lombardia n. 25/2003, che escludeva i disabili stranieri dalla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea in quanto la norma risultava emanata in violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, ed in conseguenza ha esteso tale principio a tutte le Regioni d’Italia.

Secondo la Corte delle Leggi, il principio della parità di trattamento, sancito dall'articolo 3 della Costituzione, comporta che non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità.

2. Il quadro normativo

Tale principio è, invero, contenuto nella Carta dei diritti fondamentali proclamata solennemente dai Presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione a nome delle tre istituzioni nel corso della Conferenza intergovernativa tenutasi a Nizza nel dicembre 2000.

La Carta comprende 7 Capi, il terzo dei quali dedicato all'Uguaglianza (articoli da 20 a 26).

Accanto all'articolo 21, relativo al tema della discriminazione in tutti i suoi aspetti (razziale, etnico, religioso, ecc.), gli articoli seguenti sono dedicati a categorie specifiche (bambini, anziani, disabili, ecc.).

In particolare, recita l’art. 21:

1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali.

2. Nell'ambito d'applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull'Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi."

Il Decreto Legislativo n. 215 del 9 luglio 2003 ha recepito quanto previsto dalla normativa comunitaria in materia, stabilendo delle relazioni tra trattamento discriminatorio e atti di razzismo (molestie, intimidazioni, ecc.).

L’Italia ha, quindi, adottato integralmente la nozione di discriminazione applicata in abito comunitario, distinguendo tra

- discriminazione diretta, rivolta al singolo individuo che viene trattato in maniera sfavorevole rispetto a quanto dovrebbe accadere in una situazione analoga;

- discriminazione indiretta, quando “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

L’articolo 3 del medesimo decreto stabilisce anche l’ambito di applicazione della norma, individuando il lavoro, l’accesso ai servizi, l’accesso alla casa, la sanità e l’istruzione come ambiti di intervento.

Anche il Testo unico sull’immigrazione (Legge 189/2002) ha introdotto una norma di tutela con l’art.43 “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, che dispone:

1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

2. In ogni caso compie un atto di discriminazione:

a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell'esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionali, lo discriminino ingiustamente;

b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l'esercizio di un'attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità;

e)il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa. 3. Il presente articolo e l'articolo 44 si applicano anche agli atti xenofobi, razzisti o discriminatori compiuti nei confronti dei cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell'Unione europea presenti in Italia.

3. La tutela dei disabili stranieri

In questo quadro normativo si inserisce la nuova Legge 01.03.2006 n° 67 che prevede una tutela giurisdizionale contro gli atti ed i comportamenti discriminatori nelle forme previste dall'art. 44, commi da 1 a 6 e 8, del Testo unico sull'immigrazione in favore dei disabili stranieri.

Le nuove disposizioni stabiliscono che:

  • si ha discriminazione diretta in presenza di un trattamento meno favorevole della persona disabile di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga;
  • si ha discriminazione indiretta in presenza di una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri che mette una persona disabile in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone;
  • si considerano come discriminazioni le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti.

Il provvedimento, anzitutto, stabilisce il comportamento cui le istituzioni sono tenute, nei confronti dei disabili, per garantire il rispetto effettivo del principio di parità di trattamento e la promozione delle pari opportunità.

Il provvedimento descrive la condotta discriminatoria fissando la nozione di discriminazione sia diretta che indiretta, facendo riferimento alla direttiva n. 2000/43/CE relativa alla parità di trattamento fra le persone, indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, ed alla direttiva n. 2000/78/CE relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

Il provvedimento inoltre delinea il quadro della tutela giurisdizionale con la relativa legittimazione ad agire.

In tal senso il provvedimento prevede la possibilità di attivare la procedura giurisdizionale di cui all'art. 44 del decreto legislativo n. 286/98 ai casi di discriminazione connessi alla disabilità, al fine di garantire al disabile una tutela celere e spedita.

Di particolare rilievo risulta appare la previsione che estende la legittimazione ad agire in giudizio, sia per i casi di discriminazione individuale che collettiva ad associazioni ed enti costituiti a tutela dei disabili.

Tale estensione è prevista sia su delega del disabile, sia nell'ipotesi in cui i suddetti organismi abbiano interesse ad intervenire nei giudizi per danni subiti dal disabile, o ritengano di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atto.

A tal proposito va ricordato che per contribuire a conseguire questo obiettivo ed in attuazione ad una direttiva dell’UE, dal 16 novembre 2004 è stato istituito presso il Ministero delle Pari opportunità l’ “Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o origine etnica” (UNAR).

Scopo della iniziativa è quello di assistere, in collaborazione con le associazioni e gli enti presenti su tutto il territorio nazionale, le stesse vittime anche nel percorso giurisdizionale, ove esse decidano di agire in giudizio, per l’accertamento e la repressione del comportamento discriminatorio.

Presso l’Ufficio è stato istituito un apposito registro presso il quale gli enti e le associazioni possono iscriversi per ottenere il riconoscimento di agire in giudizio in nome e per conto delle vittime dei fenomeni discriminatori.

Significative sono anche le disposizioni normative introdotte nell’ordinamento con le quali si stabilisce un quadro generale per le parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Con tali disposizioni non solo si ribadisce il divieto di discriminazione dei lavoratori per fattori legati alla religione, alle convinzioni personali, alla disabilità, all’età o all’orientamento sessuale, ma si prevedono specifici meccanismi processuali per garantire alle vittime di tali discriminazioni una rapida ed efficace tutela giurisdizionale.

Va pure ricordato che l'inserimento lavorativo dei disabili è stato recentemente disciplinato dalla L. 68/99 che promuove l'inserimento e l'integrazione lavorativa delle persone disabili attraverso servizi di sostegno e di "collocamento mirato" in funzione delle esigenze aziendali e delle capacità del singolo. Tutti i datori di lavoro privati (a partire da almeno 15 dipendenti) e le pubbliche amministrazioni nonché gli enti pubblici economici, sono tenuti ad inserire soggetti disabili nel proprio organico, in numero proporzionale alla totalità dei lavoratori impiegati. L'azienda, a fronte di particolari situazioni specificate dalla legge, può sospendere l'obbligo o richiederne l'esonero parziale.

4. La tutela giurisdizionale

In base all’art.3 della nuova Legge “La tutela giurisdizionale avverso gli atti ed i comportamenti di cui all'articolo 2 della presente legge e' attuata nelle forme previste dall'articolo 44, commi da 1 a 6 e 8, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, puo' dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta nei limiti di cui all'articolo 2729, primo comma, del codice civile.

Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio, ove ancora sussistente, e adotta ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione, compresa l'adozione, entro il termine fissato nel provvedimento stesso, di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.

Il giudice può ordinare la pubblicazione del provvedimento di cui al comma 3, a spese del convenuto, per una sola volta, su un quotidiano a tiratura nazionale, ovvero su uno dei quotidiani a maggiore diffusione nel territorio interessato”.

La norma richiama espressamente alcuni commi dell’art.44 del TU sull’immigrazione che stabiliscono testualmente:

1.Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice però, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione.

6. Contro i provvedimenti del pretore è ammesso reclamo al tribunale nei termini di cui all'articolo 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile.

8. Chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale in composizione monocratica di cui al comma 6 è punito ai sensi dell'articolo 388, primo comma, del codice penale.

Il rito previsto dall’art.44 del TU in materia di immigrazione predispone, quindi, a protezione del soggetto discriminato, un percorso giudiziale estremamente agile col quale egli potra', a termini del co.1, non solo ottenere una tutela di tipo inibitorio, ma “ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”, come, ad esempio, la disapplicazione dell’atto amministrativo illecito e l’ordine rivolto alla p.a. di provvedere a ripristinare o riconoscere l’interesse leso o negato[2].

Contro comportamenti che producono discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, la parte lesa può rivolgersi al Tribunale dove si trova il proprio domicilio per chiedere che sia ordinata la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottato ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti della discriminazione.

Con la decisione che definisce il giudizio il Tribunale può condannare il soggetto che ha posto in essere il comportamento discriminatorio al pagamento, in favore della vittima, oltre che dell’eventuale perdita patrimoniale, anche del cosiddetto danno morale.

Tale ultimo profilo rappresenta una novità per il nostro ordinamento, così svincolando il risarcimento del danno morale dalla sussistenza degli estremi di reato[3].

L’azione civile contro la discriminazione è un procedimento di volontaria giurisdizione, pertanto libero nelle forme e azionabile direttamente dall’interessato, senza il bisogno dell’obbligatoria assistenza tecnica di un avvocato.

In tal senso la procedura risulta rapida e semplificata ma incontra comunque il grave limite del principio dell’onere della prova previsto dall’art. 2697 Codice Civile, che continua a gravare sul soggetto che ritiene di aver subito un comportamento discriminatorio.atteso che, secondo la norma introdotta “Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, puo' dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta nei limiti di cui all'articolo 2729, primo comma, del codice civile”.

5. Conclusioni

Secondo le direttive impartite dalla UE[4], le discriminazioni basate sulla razza o sull'origine etnica possono pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del trattato istitutivo della Comunità Europea, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà.

Esse possono anche compromettere l'obiettivo di sviluppare l'Unione europea in direzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.

In particolare il 15 luglio 1996 il Consiglio Europeo ha adottato un'azione comune (96/443/GAI) nell'ambito dell'azione intesa a combattere il razzismo e la xenofobia in cui gli Stati membri si impegnano ad assicurare un'effettiva cooperazione giudiziaria per quanto riguarda i reati basati sui comportamenti razzisti o xenofobi.

Per assicurare lo sviluppo di società democratiche e tolleranti che consentono la partecipazione di tutte le persone a prescindere dalla razza o dall'origine etnica, le azioni specifiche nel campo della lotta contro le discriminazioni basate sulla razza o l'origine etnica dovrebbero andare al di là dell'accesso alle attività di lavoro dipendente e autonomo e coprire ambiti quali l'istruzione, la protezione sociale, compresa la sicurezza sociale e l'assistenza sanitaria, le prestazioni sociali, l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura.

Qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata sulla razza o l'origine etnica dovrebbe pertanto essere proibita in tutta la Comunità.

Tale divieto di discriminazione dovrebbe applicarsi anche nei confronti dei cittadini dei paesi terzi, ma non comprende le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e lascia impregiudicate le disposizioni che disciplinano l'ingresso e il soggiorno di cittadini dei paesi terzi e il loro accesso all'occupazione e all'impiego.

Nell'attuazione del principio della parità di trattamento a prescindere dalla razza e dall'origine etnica la Comunità dovrebbe mirare, conformemente all'articolo 3, paragrafo 2, del trattato CE, ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità tra uomini e donne, soprattutto in quanto le donne sono spesso vittime di numerose discriminazioni.

La valutazione dei fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazione diretta o indiretta è una questione che spetta alle autorità giudiziarie nazionali o ad altre autorità competenti conformemente alle norme e alle prassi nazionali.

Tali norme possono prevedere in particolare che la discriminazione indiretta sia stabilita con qualsiasi mezzo, compresa l'evidenza statistica.

È importante proteggere tutte le persone fisiche contro la discriminazione per motivi di razza o di origine etnica. Gli Stati membri dovrebbero inoltre, se del caso e conformemente alle rispettive tradizioni e prassi nazionali, prevedere una protezione per le persone giuridiche che possono essere discriminate per motivi di razza o origine etnica dei loro membri.

Il divieto di discriminazione non dovrebbe pregiudicare il mantenimento o l'adozione di misure volte a prevenire o compensare gli svantaggi incontrati da un gruppo di persone di una determinata razza od origine etnica e tali misure possono permettere le organizzazioni delle persone in questione se il loro principale obiettivo è la promozione di speciali necessità delle stesse.

In casi strettamente limitati, una differenza di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata alla razza o all'origine etnica costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, la finalità è legittima e il requisito è proporzionato. Tali casi dovrebbero essere indicati nelle informazioni trasmesse dagli Stati membri alla Commissione.

Le vittime di discriminazione a causa della razza o dell'origine etnica dovrebbe disporre di mezzi adeguati di protezione legale. Al fine di assicurare un livello più efficace di protezione, anche alle associazioni o alle persone giuridiche dovrebbe essere conferito il potere di avviare una procedura, secondo le modalità stabilite dagli Stati membri, per conto o a sostegno delle vittime, fatte salve norme procedurali nazionali relative a rappresentanza e difesa in giustizia.

L'efficace attuazione del principio di parità richiede un'adeguata protezione giuridica in difesa delle vittime.

Le norme in materia di onere della prova devono essere adattate quando vi sia una presunzione di discriminazione e, per l'effettiva applicazione del principio della parità di trattamento, l'onere della prova debba essere posto a carico del convenuto nel caso in cui siffatta discriminazione sia dimostrata.

Gli Stati membri non sono tenuti ad applicare le norme in materia di onere della prova ai procedimenti in cui spetta al giudice o ad altro organo competente indagare sui fatti. I procedimenti in questione sono pertanto quelli in cui l'attore non deve dimostrare i fatti, sui quali spetta al giudice o ad altro organo competente indagare.

Gli Stati membri dovrebbero, infine, promuovere il dialogo tra le parti sociali e con organizzazioni non governative ai fini della lotta contro varie forme di discriminazione.



[1] Come riferisce Anna Teresa Paciotti in Studiolegalelaw.it.
[2] v. P. Morozzo, Gli atti discriminatori nel diritto civile, alla luce degli artt. 43 e 44 del t.u. sull’immigrazione, Università di Urbino.
[3] v. L. Mughini, Discriminazione e contesto normativo internazionale e nazionale.
[4] v. Direttiva 2000/43/CE Consiglio del 29 giugno 2000 -Parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica.


Fonte : http://www.altalex.com/index.php?idstr=34&idnot=10427

venerdì 29 gennaio 2010

Bufala:"Dare un p.d.s. a chi denuncia il datore di lavoro nero"

Roma – 28 gennaio 2010 - È durata solo qualche ora l’ipotesi di dare un permesso di soggiorno a chi denuncia il datore di lavoro. Così come quella di una regolarizzazione permanente affidata alle autodenunce degli stessi datori.

Erano previste dal disegno di legge comunitaria, all’esame del Senato, per recepire una direttiva europea sulle sanzioni per chi dà lavoro ai clandestini. Stamattina però in Aula il Pdl e la Lega, supportati dal governo, hanno prima chiesto una bocciatura, poi approvato uno stralcio: in pratica, quelle proposte vengono trasformate in un disegno di legge autonomo, che tornerà in Commissione con tempi ed esiti incerti.

Di fatto, si tratta di una clamorosa marcia indietro, dal momento che quello stesso testo, proposto dal Partito Democratico, era stato approvato in commissione anche con i voti del centro-destra. Governo, Pdl e Lega sembrano essersi accorti solo stamattina dell’effetto che avrebbe avuto su centinaia di migliaia di immigrati senza permesso di soggiorno e su chi dà loro lavoro.

“Non ci sarà nessuna affrettata sanatoria per extracomunitari o lavoratori in nero. Abbiamo stralciato l'articolo 48 della legge comunitaria affinché su questi aspetti si continui ad agire nel solco della legge Fini-Bossi, ingresso di quote limitate e regole specifiche per il lavoro stagionale e delle norme ulteriori introdotte a contrasto della clandestinità e per l'integrazione'' ha dichiarato il capogruppo del Pdl Maurizio Gasparri.

Sandro Gozi, capogruppo del Pd nella commissione Politiche della Ue di Montecitorio definisce lo stralcio “scandaloso”. “Quella è una norma che ci chiede l'Europa ed il governo Berlusconi ha risposto con una scelta che chiarisce le sue intenzioni, cioè di non disturbare il mercato nero. Inoltre, nella stessa giornata il governo vanifica così il suo stesso piano di controlli varato dal Cdm contro il lavoro nero''.

Elvio Pasca

Articolo illuminante

ROMA -11 febbraio 2009 - La colf è filippina, il venditore di collanine africano, il fioraio pakistano, il bancarellaro cinese, lo stupratore... rumeno. È la psicosi di un tempo malato, dove la peggiore violenza diventa “etnica”; dove il branco che distrugge la vita di una ragazza non è giudicato per ciò che ha fatto, ma per il luogo da cui proviene.

I dati raccontano altro. Il sito la voce.info rivela che dal 1990 al 2003 il numero dei permessi di soggiorno si è quintuplicato (dallo 0,8 al 4 per cento) mentre la criminalità è lievemente calata; e aggiunge che tale stima è indicativa anche per ciò che riguarda la parte “sommersa” e cioè gli irregolari e i crimini non denunciati. Ma cosa contano i dati quando una nazione intera ha voglia di lavarsi la coscienza?
Noi, folla inferocita che ha voglia di dimenticare. Noi non vogliamo vedere che gli specialisti degli stupri a base di pasticche e alcol sono giovani spesso borghesi e benestanti. E che in oltre tre quarti delle violenze sessuali lo stupratore ha “le chiavi di casa”. E che le nostre città sembrano fatte apposta per gli agguati, perché sono buie e piene di periferie degradate, perché nelle discoteche la droga gira come acqua minerale, perché di sera la metro chiude e i bus diventano rarissimi, perché le feste giovanili sono sovente territori fuorilegge dove tutto è permesso.

Noi non possiamo vedere questa realtà, perché mette in discussione troppe certezze: la famiglia sacra e protettiva, i nostri ragazzi bravi figli, il campanile stracittadino che ci è tanto caro. Quindi molto meglio scaricare tutte le colpe sul parafulmine straniero. Più “lui” è colpevole, più siamo innocenti noi.

Restano tante domande appese, ignorate. Se la nostra legge considera un’attenuante commettere dei crimini sotto l’effetto di droghe, la colpa è dei rumeni? Se i nostri magistrati considerano normale mandare a casa chi ha appena stuprato una donna, la colpa è dei rumeni? Ed è colpa loro anche se la mamma di Nettuno dice che il suo figlioletto sedicenne complice del rogo del barbone è un ragazzo di buon cuore traviato dai più grandi?

Nessuno assedia le auto della polizia, nessuno ha fame di linciaggio quando ai domiciliari viene portato “un bravo ragazzo” italiano che ha stuprato per scommessa, che ha bruciato un uomo per gioco. Nessuno chiede conto alla classe politica di una legge per cui uno stupro vale meno di tre anni di carcere, quindi vale la libertà condizionale; e di un’altra legge che ritiene impossibile la custodia cautelare quando il reato di cui si è accusati prevede la condizionale. Nessuno chiede conto alla giustizia italiana dei suoi occhi chiusi sulle violenze commesse sulle donne islamiche, da uomini che applicano in Italia la sharia più brutale che nel loro Paese non potrebbero applicare. E nessuno osa mettere il naso nella famiglia, dove la violenza è più sottile e più tragica, perché in quel caso un uomo abusa di chi gli ha regalato la sua fiducia e la sua vita, perché spesso nella sua atrocità coinvolge dei bambini, perché non di rado a chiudere la bocca della donna sono sentimenti come paura, vergogna, senso di colpa che si aggiunge allo strazio.

“Spiegate ai figli la gravità di certi gesti”, dice Giovanni Bollea. Ma bisognerebbe prima spiegarlo alle madri e ai padri. E poi spiegare che “certi gesti” non hanno colore né razza.

Sergio Talamo

Le CASE dell’associazione le C.A.S.E.


Dall’avvio delle attività ad ora l’associazione ha attivato quattro case
famiglia , una casa di accoglienza e due centri sono in fase di ristrutturazione:
Casa famiglia “ il melograno“ Attiva dal 1998 a Pelago (FI) : 6 posti per minori
e adolescenti in situazione di disagio.
Casa famiglia di Pomino Attiva dal 2001: 4 posti per nuclei familiari, donne,
gestanti e madri con figli, nel comune di Rufina (FI)
Casa famiglia “ Io sono mio “ Attiva dal 2005 in località Morello a Sesto
Fiorentino (FI): 4 posti per minori dagli zero ai 18 anni,
Casa famiglia “ I girasoli “ Attiva dal 2006 a Farneto ( Vicchio, FI ): 4 posti
per minori dagli zero ai 18 anni.
Tutte le strutture sopra elencate hanno idoneità al funzionamento e rapporti
con ASL, comuni, tribunale per i soggetti in accoglienza.
Inoltre
Casa di accoglienza di Baroncelli, Attiva dal 2001 al 2005 a Baroncelli, Bagno a
Ripoli. (F). Inizialmente (2001) per giovani maggiorenni in fase di stacco dalle
case famiglia, in seguito per migranti ( dall’ottobre 2005 ha cessato l’attivita)
Centro S.I.eC.I. Attivo dal 2000 al 2007. Centro di formazione ed attività
didattiche sullo sviluppo sostenibile a Sieci (Pontassieve). Promosso da Mani
Tese: l'associazione le CASE ha collaborato per le attività di accoglienza e
formazione. L'esperienza si conclude per vendita del podere da parte della
Madonnina del Grappa e proseguirà al centro Aia Santa (vedi sotto).
Centro “Aia Santa”, a Vespignano ( Vicchio ) in fase di ristrutturazione; sono
già svolte attività di formazione per giovani sul tema degli stili di vita e
dell'economia responsabile, campi di lavoro e dall'autunno 2008 residenza
protetta per giovani maggiorenni.
Centro “ I piani “ a Rincine ( Londa ) in fase di ristrutturazione.
Le case attive sono visibili su:
Visualizza sedi ass. Le CASE in una mappa di dimensioni maggiori
Molti degli immobili sono stati ottenuti dalla Diocesi di Fiesole e da quella di Firenze: due
in comodato d’uso gratuito per periodi di nove anni rinnovabili, tre con un contratto di
affitto; il centro “I piani” , dalla Comunità Montana Montagne Fiorentine, mentre il centro
“Aia santa” è stato acquistato dall’Associazione con una donazione di Mani Tese nazionale.
Tutte le case attivate sono state ristrutturate utilizzando fondi propri ed altri fondi
messi a disposizione dalla Regione Toscana, dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze,
dall’associazione Mani Tese, dall’associazione Emmaus Italia e con il contributo operativo di
molti volontari tra cui gli Universitari Costruttori di Padova, gruppi Scouts, gruppi di
volontariato locale e soci dell’associazione. Inoltre le case famiglia di Monte Morello e di
Farneto sono state arredate a titolo gratuito dall’IKEA di Firenze.

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mercoledì 27 gennaio 2010

Regole della Casa Famiglia “Il Melograno Pelago”



1.Rispetto, chiarezza e correttezza nei confronti di tutti.
2.Imparare a dialogare e confrontarsi con gli altri.
3.Parlare il più possibile in italiano.
4.Nelle camere dopo le 23,00 si va per dormire.
5.Per gli spostamenti si usano i mezzi pubblici.
6.Non si esce di SERA, o tutto il giorno o più di uno, se non con persone che collaborano e conosciute (che danno fiducia) ai Responsabili della Casa Famiglia.
7.Portare a termine i propri impegni assunti (scuola, patente, Att. Sportive, incontri con i parenti, tirocinio,etc).
8.Paga settimanale 10euro a 16 anni 15euro a 17 anni.
9.Rispettare gli orari stabiliti all'interno della C. F.
10.Non si va nelle camere degli altri.
11.Non usare telefonini a tavola.
12.Non si fuma in casa (per chi ha il vizio di fumare).
13.Pulizia della propria camera il Sabato o la Domenica.
14.Aiuto in cucina nel giorno in cui non ci sono impegni concordati e già stabiliti.
15.Sono consentite tre uscite pomeridiane, nei giorni stabiliti dai responsabili.
16.Trovare un lavoro dopo la conclusione del periodo scolastico.
17.Le uscite dai parenti sono stabilite una volta al mese concordando un giorno specifico con i responsabili in accordo con i servizi.
18.No al viaggio nel Paese di origine (solo dopo la maggiore età) se uno rimane ancora in C.F. in accordo con i responsabili trovando le modalità giuste.

E' importante ricordare che:

In questa Casa esistono dei valori e delle regole che vengono trasmesse a chi vive e frequenta questo luogo al fine di migliorare e favorire soprattutto un cammino di autonomia e di responsabilità, per poter diventare uomini in grado di vivere dignitosamente.
C'è la massima disponibilità nell'aiuto degli impegni di ogni ragazzo (finanziario, d'ascolto, nel trovare una occupazione lavorativa, etc) sempre nel rispetto dei ruoli.
La Casa Famiglia non è un albergo, ma un luogo di convivenza comune, quanto più possibile serena.
E' una famiglia dove si possono incontrare tensioni, gioie e tutte le dinamiche che ne scaturisce.

Qualsiasi idea che viene in mente ai ragazzi va discussa e concordata con Rita , Roberto e Simone.

Procedura da seguire per i Minori Stranieri Non Accompagnati

COMPITI DELL’ASSISTENTE SOCIALE per INSERIMENTI E SEGNALAZIONI


Fase 1 URGENZA : collocazione e prime segnalazioni


Le FF.OO. segnalano al Servizio Minori e Famiglia un MSNA; l’Assistente Sociale colloca il minore presso un CPA.

Se il minore è stato collocato direttamente dalle FF.OO. presso un CPA, l’A.S. il giorno seguente recepirà tale inserimento dalla struttura e si attiverà per gli adempimenti di competenza.


Se il minore si dovesse presentare presso la sede del Servizio Minori e Famiglia deve essere inviato, per gli accertamenti rispetto all’identificazione, presso le FF.OO.; in caso le FF.OO. dell’Ordine non lo identificassero il minore verrà collocato presso un CPA e verrà fatta contestualmente una segnalazione a Procura presso il Tribunale per i Minorenni, al Giudice Tutelare e al Comitato Minori Stranieri dell’inserimento del MSNA. (allegato 1 e 1 bis segnalaz. non identificato) specificando che il minore non è stato identificato.


Per tutti i minori il giorno stesso della segnalazione da parte delle FF.OO. l’A.S. dovrà comunicare alla Procura presso il Tribunale per i Minorenni, al Giudice Tutelare e al Comitato Minori Stranieri l’inserimento del MSNA. (allegato 2).


Entro 3 giorni dall’inserimento verrà inviato al Comitato Minori Stranieri la Scheda “A” (allegato 2bis e 3) debitamente compilata (se il minore è inserito nel Bando ANCI dovrà essere riportato la data in cui è stato inserito nel Programma Nazionale). Alla scheda dovrà essere allegato un documento di identità del minore con fotografia. (Per documento si intende: passaporto, carta consolare, altri documenti legalizzati dal paese di origine in Italia o dal consolato italiano nel proprio paese, carta ONU. Tutti gli altri documenti non sono riconosciuti.)


Fase 2 POST URGENZA: presa in carico del minore in Pronta Accoglienza


L’A.S. entro una settimana dall’inserimento in Pronta Accoglienzaalla presenza di un mediatore culturale al fine di: dovrà effettuare un colloquio con il minore

  • Informare il minore circa la normativa vigente in materia di minori stranieri non accompagnati e di asilo politico (permesso di soggiorno, rimpatrio assistito, asilo politico, ecc.), di lavoro minorile e di obbligo formativo.

  • Acquisire informazioni riguardo alla famiglia di origine del minore: generalità, residenza, recapiti telefonici, situazione socio-economica del nucleo.

  • Acquisire il parere del minore riguardo al rimpatrio assistito, ed ai suoi eventuali motivi ostativi.

  • Storia del minore sia nel suo paese di origine che in Italia (cosa faceva, motivo della sua venuta in Italia, mezzi per arrivare, ecc.).


L’A.S. entro 14 giorni dall’inserimento in Pronta Accoglienza dovrà:

    1. inviare al Comitato Minori Stranieri la Scheda “C/D” (allegato 4);

    2. inviare relazione al Giudice Tutelare per l’apertura della tutela nel caso il minore non abbia parenti sul territorio;

    3. elaborare, in accordo con la struttura di pronta accoglienza, un primo progetto educativo individuale che rimarrà agli atti del Servizio Sociale e della struttura di accoglienza.


Entro 30 giorni l’A.S. invierà al CMS la Scheda “B” (allegato 5) con allegati, se in possesso, i dispositivi emessi dal Giudice Tutelare (tutela) e dalla Questura (permesso di soggiorno).


Nel frattempo l’A.S. dovrà, se il minore ha parenti in Italia con regolare permesso di soggiorno, convocare il parente, informarlo riguardo alla normativa vigente in materia di minori stranieri non accompagnati e della posizione giuridica relativa alla tutela, affidamento. Se il parente è disponibile alla tutela l’A.S. segnalerà al Giudice Tutelare la situazione.



Fase 3: PRESA IN CARICO


L’Assistente Sociale, passato un mese dall’inserimento in pronta accoglienza, avrà cura di:

  1. verificare il PEI e aggiornarlo attraverso colloqui con il minore e il responsabile della struttura;

  2. inviare al CMS ogni ulteriore informazione e documentazione riguardante il ragazzo;

  3. inviare al CMS una relazione di aggiornamento sulla situazione del minore almeno ogni 6 mesi a meno di cambiamenti significativi dello status del minore;

  4. elaborare un eventuale inserimento in comunità residenziale. Tale eventuale passaggio deve essere comunicato al GT e al CMS (allegato 6).


Fase 4: INSERIMENTO IN COMUNITÀ EDUCATIVA


L’Assistente Sociale, passata una settimana dall’inserimento in comunità, avrà cura di:

  1. verificare il PEI della PPAA e iniziare a rielaborare un progetto educativo che miri all’autonomia del minore che rimarrà agli atti del Servizio Sociale e della struttura di accoglienza;

  2. inviare al CMS ogni ulteriore informazione e documentazione riguardante il ragazzo.

  3. inviare al CMS una relazione di aggiornamento sulla situazione del minore almeno ogni 6 mesi a meno di cambiamenti significativi dello status del minore;

  4. aggiornare il TM o il GT in caso di affidamenti ai sensi della 149/201 ogni sei mesi.



PROCEDURA PER ALLONTANAMENTI ARBITRARI DEI MINORI


Nel momento in cui una PP.AA. e/o una comunità educativa comunica al Servizio Minori e Famiglia l’allontanamento arbitrario di un minore, l’A.S. dovrà comunicarlo (allegato 7) tempestivamente a:

  1. Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni;

  2. Giudice Tutelare;

  3. Comitato Minori Stranieri.



ULTERIORI ADEMPIMENTI

Sarà cura dell’Assistente Sociale referente del minore inviare comunicazioni al Giudice Tutelare e al Comitato Minori Stranieri inerente il compimento della maggiore età e la conclusione del progetto educativo.